LA PRIMAVERA DI PRAGA E LE RAGAZZE CHE TIRAVANO SU LE SOTTANE PER CONFONDERE I SOLDATI RUSSI di Yuri Colombo
La
notte del 20 agosto 1968, le truppe del Patto di Varsavia con alla
testa l'Armata Rossa, varcavano il confine della Cecoslovacchia
mettendo fine alla Primavera di Praga. Con la repressione di quel
movimento guidato da Alexander Dubček
e dai comunisti riformatori calava il sipario sulle residue speranze
di riformare i regimi burocratici dei paesi dell'Est e di poter
sviluppare un socialismo dal volto umano.
Il
regime cecoslovacco, a differenza di altre democrazie popolari era
stato il prodotto non semplicemente dell'estensione geografica a
seguito degli Accordi di Yalta dello stalinismo. Il partito comunista
cecoslovacco non era una semplice marionetta di Mosca e dopo la
guerra aveva sempre goduto nel Paese di un certo sostegno. A rendere
le condizioni favorevoli per la formazione di una fronda riformista
c'era anche il grado di sviluppo sociale del paese (oltre il 90%
della popolazione lavorava nell'industria e nei servizi) e la
mancanza di tensioni forti economiche (dal 1965 fino al 1968 il Pil
crebbe al ritmo del 7%). È in questo contesto che la rivendicazione
di una maggiore libertà politica potè trovare slancio all'interno
del partito e nella società.
Il disgelo krusheviano
degli anni '60, inoltre, permise nel mondo culturale l'emersione di
figure come Miloš
Forman, Vaclav Havel, Milan Kundera.
Fino
al 1968 però l'ipotesi di una stagione di rinnovamento nel Paese era
frenata dalla cappa di ferro del controllo politico-militare del
grande fratello sovietico sul paese. Tuttavia quando Leonid Brežnev,
nel dicembre del 1967 si recò a Praga, si lasciò scappare davanti
ai cecoslovacchi che i russi non avrebbero interferito negli affari
interni del Paese, pronunciando la celebre frase: “Questi sono
affari vostri”. I riformatori la intesero come un via libera a un
profondo rinnovamento della Repubblica. Il corso degli eventi divenne
turbinoso. Il 5 gennaio Dubček
sostituì alla guida del partito il conservatore
Novotny, a febbraio venne abolita la censura, fiorirono libere
associazioni culturali, vennero riabilitate le vittime dei processi
del 1953. Ha scritto a proposito della primavera praghese Heda
Margoluis Kovaly: “La primavera del 1968 ebbe l'intensità,
l'ansia e l'irrealtà di un sogno avverato. La gente si riversava
nelle stradine della Città vecchia e nei cortili del Castello e
rimaneva in giro fino a tarda notte, anche parecchio tempo dopo che
le porte del Castello si erano chiuse, c'era sempre qualcuno che si
fermava sui bastioni a guardare le luci di una città che non
riusciva a
dormire dalla gioia”. “Ci rivoltammo contro la nostra stessa
giovinezza”, ha sostenuto con enfasi poetica Kundera.
Per
la gerontocrazia del Cremlino fu qualcosa di inaspettato, un virus
democratico che rischiava di infettare tutti i Paesi del Patto di
Varsavia, ma la loro richiesta di fare retromarcia trovò la ferma
opposizione di Dubček
.
Così
il 20 agosto iniziò l'operazione Danubio, così venne denominata
l'invasione, che coinvolse 165.000 uomini e 4600 carri armati. Dubček
dette l'ordine all' esercito di non resistere. La gente si riversò
semplicemente nelle piazze cercando di fermare i tank pacificamente e
di dialogare con i soldati russi. In uno spirito genuinamente
sessantottino comparvero scritte goliardiche rivolte ai soldati russi
come “Ivan torna a casa! Nataša
va con Kolja!”. Umberto Eco, in quei giorni a Praga per l'Espresso,
racconta: “Arrivano strombettando autocarri carichi di
cappelloni... brulicanti di bandiere cecoslovacche che inneggiano a
Dubček.
Qualcuno saluta col pugno chiuso. Che la rivolta, come gia a Budapest
nel 1956, non sia contro il socialismo è confermato dallo stesso
Eco: “Da un primo carro fermo all'angolo, attorniato da una folla
che si punta l'indice alla fronte e chiede al russo sulla torretta.
'Sei matto? Noi, nemici del socialismo?'. dicono i giovani ai soldati
ma il socialismo che vogliamo è un nuovo socialismo”.
Si tratta di un sentimento generalizzato che viene sintetizzato in
un'altra scritta provocatoria che appare sui muri della capitale:
“Lenin svegliati! Brežnev
è uscito pazzo!”
Anna
Bravo in un saggio apparso in uno dei pochi libri usciti quest'anno
sul '68 in Europa dell'Est (Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato,
Donzelli editore) ha sottolineato come il '68 praghese non sia stato,
a differenza di quello parigino, imbevuto dalla mitologia della
guerriglia urbana proprio perchè non recuperava tutte le ideologie
eretiche del movimento operaio (trotskismo, guevarismo,
consiliarismo) evitando così di trasformare in feticcio la violenza
rivoluzionaria. Tuttavia nel '68 cecoslovacco ci furono comunque dei
casi di riots,
come a Bratislava: al passaggio dei carri armati alcune ragazze
sollevavano le gonne, e mentre i giovani carristi russi fermavano i
carri per ammirare quelle giovani cosce, saltavano fuori dei giovani
che, a sassate ne mandavano a pezzi i fari.
In
Italia il PCI condannò l'invasione anche se reticenze e distinguo
non mancarono. Solo Lucio Magri, a nome del nascente gruppo del
Manifesto denunciò nel celebre saggio “Praga sola, le ambiguità
del partito”. La condanna di Pietro Nenni invece fu netta. In
parlamento il leader socialista sostenne che Praga era “l'eresia
della libertà, cioè una lotta sorda di un popolo per la libertà
la quale, onorevoli colleghi, non è proletaria né borghese, ma
soltanto umana”:
Malgrado
la resistenza, nel giro di qualche settimana le truppe occupanti
riuscirono a riprendere il controllo della situazione e Dubček
dimissionato da ogni incarico, si adattò a sopravvivere facendo il
manovale. Molti suoi compatrioti invece, oltre 200.000, presero la
strada dell'esilio: il sogno di un nuovo socialismo morì davvero in
quella afosa estate a Praga. Già il movimento dei dissidenti di
Charta '77 successivamente abbandonà ogni riferimento al socialismo
per posizionarsi su una pilatesca difesa dei diritti umani. Di lì a
poco sarebbe nata Solidarność
in Polonia, ma forse questa è già un'altra storia.
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